Paola Volpato


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Luigi Meneghelli 09


Luigi Meneghelli per la Mostra "Flowers? La persistenza del fiore" Caorle

L'opera di Paola Volpato è invariabilmente un'opera aperta, un flusso di immagini, un intrico di rimandi: è una forza che esplode dappertutto, producendo innumerevoli centri in continua espansione. Se volessimo conoscere da che punto cominciare per coglierla nelle sue molte radici e seguirla nello sviluppo dei suoi plurimi intrecci, dovremmo ammettere che ogni punto potrebbe essere una porta d'entrata, come accade per quell'immenso edificio che è la scrittura borgesiana con la sua natura circolare, perpetua, felicemente casuale. L'impressione è quella di un lavoro che procede per stratificazioni di punti isolati e imprevisti, addizionando restauri, ritrovamenti, prelievi in una specie di peregrinazione infinita. Vengono collocate sullo stesso piano riproduzioni di immagini solenni del passato e tracce banali della quotidianità, fatti pittorici e materiali di scarto (reti, garze, stoffe, carta da lucido, pluriball). Pare quasi che l'obiettivo di Paola sia quello di arrivare a combinare e usare qualsiasi iconografia, materiale, tecnica, con assoluta disinvoltura, senza porsi questioni di stile o di metodo. Così, a un primo sguardo, le superfici danno un po' l'idea di un tabellone, dove si attaccano i fogli con le puntine da disegno o dove si incollano gli appunti per un lembo: sono superfici che lasciano scivolare (e mescolarsi) oggetti e pitture, superfici che tendono a trascorrere, a non esistere, e spesso ad annebbiarsi (o con-fondersi), invece di fissare un'immagine nella propria nitidezza. Ma se si spinge più a fondo l'osservazione, scopriamo tutta l'importanza di queste assenze, di queste eclissi visive. Emily Dickinson (la poetessa statunitense tanto amata da Paola) scriveva: "La negazione mi eccita… mi nutro di evanescenza". Come dire che ogni sospensione è un alimento che riempie più di qualsiasi cibo-scrittura: attraverso di essa le immagini sollecitano l'immaginazione, le visioni stimolano la visionarietà. In questo modo ci accorgiamo che nell'ampia galleria di forme e di figure, dove tutto è diverso e frammentario, tutto è anche ininterrotto, coerente, misteriosamente affine, segretamente legato. Non solo: ma questa stessa galleria ci spinge proprio a cercare anche ciò che non c'è, a intuire l'alternativa possibile, l'altra faccia del mondo. Essa suggerisce più di quanto non dica, allude più di quanto non affermi. Per capire meglio, si potrebbe osservare anche quella serie di fotografie che Paola scatta durante la preparazione delle opere. Non sono solitarie testimonianze di una realtà "nuda e cruda", ma inquadrature parcellari, tagli di scena, variazioni di posa, che mostrano l'espressività degli elementi messi in scena, aldilà di ogni loro elaborazione formale. Qui, più che il dato visivo in sé, conta il suo prodursi, il processo attraverso cui l'artista tende a mutare, a rifare il corso delle cose, a "mettere al mondo il mondo" (come avrebbe detto Alighiero Boetti). Conta ridare vita a quell'immenso giacimento di informazioni che gli oggetti continuano ad essere, anche un volta che abbiano perso ogni contrassegno funzionale (come può essere per un foglio di giornale o per la reliquia di un merletto). Ma non si tratta di un'azione eversiva, quanto piuttosto di un'azione conoscitiva. In fondo Paola non intende fare un discorso sulla società dominata dai media, non mira a puntare il dito sul sistema del consumo: lei non lavora "contro" le cose, ma mediante le cose, come se loro, nella loro residualità, potessero raccontare la loro stessa storia e inventarne al contempo una inedita, fiabesca. Lo stesso uso di brevi inserti verbali o di tracciati neri che attraversano i fogli non vanno letti come tentativi di chiarire o di inquadrare le immagini ma, alla pari di quello che accade nei tratti giapponesi, come segni che acquistano un proprio essere, cessando di essere segni di qualche cosa. Essi suggeriscono un movimento, mai una figura stabile: si agitano nello spazio, come cercando uno spazio che non c'è. Ed è proprio da qui che nasce anche il titolo della mostra (Flowers?, con tutto il dilemma che il punto interrogativo porta con sé): non è mai una citazione diretta a una forma o il richiamo definito a un determinato simbolo. Ci sono solo macchie, schizzi, accenni, sospensioni, come se la figura metaforica del fiore (metafora storica della bellezza) non fosse in nessun modo raggiungibile. Sono poco più che dediche come quelle che fa la Dickinson al suo "Luminoso Assente": segni mutanti, percorsi infiniti, viaggi enigmatici, non per arrivare ad un senso, ma, paradossalmente, per conquistare l'incessante "meraviglia della sua perdita".



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